mercoledì 14 ottobre 2020

I pozzi di petrolio

 I pozzi di petrolio

Una delle mansioni più importanti del nostro Reggimento consisteva nel mantenimento delle linee per le comunicazioni telegrafiche e telefoniche, fondamentali per il corretto coordinamento delle azioni di guerra.

Tra le numerose escursioni, capitavamo spesso nella zona del paese di Devoli, sulle sponde del quasi omonimo fiume Devoll, la cui prerogativa era la presenza di numerosi pozzi di petrolio. Le poche scalcinate abitazioni del centro abitato, così come apparivano dal nostro punto d’osservazione, non costituivano certo un’attrattiva, ed è questo il motivo per cui nessuno di noi ha mai nemmeno messo il naso oltre i limiti dell’accampamento. Il villaggio si sviluppava, per poco più di un centinaio di metri, lungo una strada stretta e disagevole e, a detta degli operai del posto, non disponeva né di un bar né di qualsiasi altra fonte di svago o intrattenimento. Gli operai esprimevano il comune malcontento di trovarsi lontani da casa, sperduti in mezzo ai monti e senza il minimo svago che non fosse una disperata partita a carte tra colleghi. Senza contare il tangibile rischio che il campo potesse diventare oggetto di bombardamenti mirati a smantellare gl’impianti estrattivi. 

Una volta ingaggiati per la missione, partivamo da Elbassan la mattina, di buon ora, al termine di una sommaria adunata e la marcia di avvicinamento alla zona in questione c’impegnava per tutto il giorno. Di solito, specialmente in inverno, giungevamo sul posto che già era buio pesto. Il nostro plotone, in quella zona, prendeva alloggio in un enorme capannone di lamiera col tetto in eternit, in precedenza utilizzato come magazzino dalle ditte italiane che avevano in appalto lo sfruttamento dei pozzi della zona. L’ampiezza del locale consentiva agevolmente l’alloggio sia alla truppa sia alle cavalcature di un plotone intero, tanta era la forza distaccata ogni volta per missioni del genere. Tanto per non perdere il vizio, dormivamo per terra, adagiati solo sulla copertina da campo in coppia con la fredda canna dell’inseparabile moschetto, sempre col colpo innescato. Di brande, neanche l’ombra, ma almeno avevamo un tetto sopra la testa.

Solitamente ci trattenevamo nella zona solo pochi giorni, giusto il tempo di riallacciare le linee telefoniche interrotte dai frequenti sabotaggi della compagine partigiana e riparare eventuali guasti alla centralina di distribuzione che si trovava in una torretta sperduta nel bosco vicino. Spesso le opere di ripristino si dimostravano vane in quanto, al ritorno al campo di Elbassan, capitava che le linee fossero di nuovo interrotte, magari in un punto diverso dal precedente, cosicché un nuovo plotone partiva per ricominciare quella specie di circolo vizioso. 

Nelle vicinanze del capannone in cui alloggiavamo durante quelle escursioni, in una baracca dall’apparenza neanche troppo stabile, trovava posto un’enorme pompa alimentata da un potente motore a testa calda, che comandava una decina di torri dislocate nel raggio di un centinaio di metri. Attraverso robusti e lunghi cavi d’acciaio adagiati sulla nuda terra, la centrale trasmetteva ai terminali un movimento rotatorio costante che, sul posto, un sistema di rinvii, pulegge ed enormi bronzine trasformava nel classico movimento oscillante delle torri estrattive, i terminali veri e propri della pompa. Scorri oggi, scorri domani, i cavi avevano provocato delle profonde scanalature che il tempo aveva poi ricoperto con terreno fresco sì da nasconderli alla vista ed al contatto diretto. La ragnatela di collegamenti tra la sala-controllo ed i tralicci era percepibile attraverso il tremolio che il movimento continuo dei cavi trasmetteva al suolo soprastante. Sembrava di camminare su un terreno perennemente sollecitato, senza soluzione di continuità, da lievi scosse telluriche il cui epicentro era localizzato laddove i cavi affioravano in superficie. Il tremolio della zona ed il rumore dello sfregamento delle funi d’acciaio, oltre all’intenso e costante rombo del propulsore diesel, erano facilmente percepibili perfino all’interno del capannone generando non pochi disagi anche durante le scarse ore di riposo notturno. 

Nelle vicinanze del capannone, poi, ricordo una trivella, anch’essa alimentata da un generoso motore a nafta, che girava lentissimamente tuttavia senza tregua perforando il terreno alla ricerca di un’ulteriore accesso al giacimento di petrolio sottostante. Ad ogni missione del genere a cui ho partecipato, poche a dire il vero, la trivella era sempre lì che bucava. Mi era capitato di assistere al lavoro degli operai che assemblavano nuovi spezzoni di tubo, man mano che la profondità del terreno aumentava, tuttavia avevo l’impressione che la perforatrice dovesse trapassare il mondo da parte a parte, tanta era la costanza e l’accanimento dell’operazione, senza tuttavia mostrare risultati concreti.

Nei primi mesi del ’43, finalmente, il mio plotone ed io assistemmo al coronamento degli sforzi della squadra di operai italiani addetti alla trivella: un pomeriggio, mentre all’interno del capannone strigliavo il cavallo di ritorno da una perlustrazione nel bosco, un boato sordo ma potente scosse le pareti della struttura mettendomi in apprensione. Assicurato Alone al suo posto, mi precipita fuori di corsa giusto in tempo per vedere il primo getto di petrolio che, con un sibilo assordante, scaturiva dal foro provocato dalla trivella. Gli operai, investiti dallo zampillo caldissimo, tuttavia sufficientemente raffreddato nel viaggio di ricaduta a terra, saltavano di soddisfazione in preda ad uno slancio d’euforia collettiva generato dal compimento dell’operazione. Molti miei commilitoni che si aggiravano ignari nelle vicinanze dovettero subire, loro malgrado, un trattamento simile e le loro divise furono inzaccherate dalla ricaduta di quel fluido primordiale. La pressione del sottosuolo lanciava il getto in cielo, dritto come un cero, ad un’altezza di qualche decina di metri finché ricadeva come in un’allegra corvina fontana.

Pioveva catrame da tutte le parti. La baracca al cui interno si trovava il propulsore della trivella era completamente ricoperta dal fluido nero e lo spiovente del tetto grondava di gocce dense che quasi si solidificavano a contatto col terreno. Tutto intorno al buco nel terreno si formò rapidamente un laghetto fumante che puzzava di uova marce lontano un miglio. La pozza, tuttavia, man mano che si raffreddava, assumeva sempre di più i connotati di uno specchio nero, lucido e vischioso al punto da intrappolare chiunque vi si fosse avventurato. Ritrovavamo gocce di oro nero perfino sul pelo dei cavalli e dovevamo penare non poco, per rimuoverlo a dovere senza provocare irritazione ai fedeli quadrupedi compagni. Nei giorni successivi all’apertura del pozzo, prima che gli addetti riuscissero a domare definitivamente il getto convogliandolo nelle tubazioni e da lì al deposito poco distante, cercavamo continuamente di eludere le untuose gocce del caldo zampillo, anche se spesso, un po’ per il vento, un po’ per distrazione, era praticamente inevitabile restarne coinvolti. Alla sera era facile trovare le nostre divise e, soprattutto, le bustine punteggiate da gocce nere dalla consistenza quasi solida in conseguenza al raffreddamento del petrolio.

 

domenica 5 marzo 2017

abbiamo fame


Abbiamo fame 





Di ritorno dall’ospedale mi resi subito conto che qualcosa di strano e drammatico aleggiava nell’aria: nella settimana di assenza le derrate alimentari, già scarse prima del mio ricovero, si erano drammaticamente ridotte ed un crescente malumore serpeggiava tra le fila. Al rancio del mezzogiorno ci rovesciarono nella gavetta due dita di una brodaglia incolore ed inodore e ci consegnarono due gallette a testa. Nient’altro! La stessa cosa successe la sera. La mattina successiva: colazione neanche a parlarne.

La situazione si protrasse per alcuni giorni, durante i quali riuscimmo ad ottenere al massimo una mela rinsecchita o una cipolla, poi le rimostranze per la scarsità di cibo, alimentate dai morsi della fame, si fecero più consistenti costringendo il comandante del campo ad indire un’adunata straordinaria per comunicazioni che egli riteneva importanti.



Alle tre del pomeriggio il 13° Reggimento Cavalleggeri di “Monferrato” si trovò schierato al cospetto di un nutrito gruppo di ufficiali del plotone comando da cui si staccò il comandante del campo per avvicinarsi alla truppa.

Più affranto di noi e certamente più rassegnato, ci comunicò che la situazione non era migliore per il plotone comando in quanto le derrate alimentari che arrivavano dall’Italia erano state drasticamente ridotte a causa della pressante crisi economica dovuta alla guerra. Ci disse che in Patria, purtroppo, le condizioni erano pressoché simili alle nostre e che la gente soffriva come noi per la fame cronica. Per far fronte alla crisi, si diceva che il governo fascista aveva addirittura confiscato tutto ciò che di oro ed altri metalli preziosi una famiglia poteva serbare: la confisca non aveva risparmiato neanche le fedi nuziali col pretesto di finanziare le missioni del nostro esercito nelle colonie. Si stava letteralmente raschiando il fondo del barile, già ampiamente ripulito in precedenti situazioni d’emergenza.

«Inoltre,» proseguì il comandante raggiungendo l’estremità dello schieramento e bloccandosi impettito con le mani dietro la schiena «dovete tenere presente che noi, sperduti quaggiù in queste lande desolate, siamo il gradino più basso di una scala troppo lunga per non dar luogo a deprimenti dispersioni».

Detto questo si chinò e raccolse un pugno di terra, talmente fine da sembrare sabbia, che consegnò nelle mani disposte a coppa del primo soldato della fila, poi riprese con tono rassegnato:

«Fate conto che io, in questo momento, rappresenti lo Stato Maggiore del nostro esercito ed abbia appena consegnato al vostro collega, delegato all’invio, gli approvvigionamenti per il nostro contingente, per l’appunto la manciata di terra. Prima che le derrate alimentari arrivino da noi, subiscono una serie di passaggi durante i quali patiscono drammatici sfoltimenti.» Continuò, istruendo il militare di fianco a lui di consegnare il pugno di sabbia al vicino di schieramento. «Notate bene che cosa succede al pugno di sabbia nelle varie consegne…»

Sotto i nostri occhi mesti, dopo pochi passaggi il pugno di sabbia si ridusse a pochi granelli che scomparsero inesorabilmente dopo l’ultimo dei cinque o sei passamano.

«Ecco che cosa resta di ciò che viene originariamente destinato ai contingenti all’estero!» concluse sconsolato «Arrangiamoci, dunque, finché possiamo! Da ora in avanti dovremo far affidamento solo sulle nostre forze!».



Non riesco a dare una configurazione temporale precisa all’episodio, ma non è difficile arguire, col senno del poi, che ci stavamo avvicinando a grandi falcate al fatidico otto settembre.


venerdì 18 aprile 2014

Che tipo!

Che tipo!
  
Al campo di Elbassan si manifestò un altro episodio febbrile della durata di qualche giorno che indusse l’ufficiale medico a predisporre un mio nuovo ricovero in ospedale. La solita camionetta mi accompagnò al nosocomio che distava pochi chilometri dal campo e, al termine della consueta trafila burocratica che mi ammetteva in ospedale, mi ritrovai a condividere una camerata con una decina di personaggi. Al contrario di quando fui ricoverato a Tirana per gli orecchioni, ebbi la sensazione che i ricoverati non fossero tutti militari e l’impressione fu confortata dal fatto che alcuni di loro fossero albanesi piuttosto anziani e quindi non più in età da servizio militare. Una camerata multietnica non era certo il massimo, visti i rapporti poco felici con i
partigiani locali, ma evidentemente a nessuno interessava veramente quello che succedeva al di fuori di quelle quattro mura, in quanto l’ambiente si dimostrò piuttosto disteso.

A dire il vero, però, la tranquillità era spesso turbata dalla presenza di un tipo che occupava il letto di fianco al mio: pazzo da legare! Il tizio dava l’impressione evidente di aver completamente perduto il cervello e non ricordo un episodio in cui abbia dimostrato un pur minimo stato di lucidità: gli occhi chiari e sempre sgranati, i capelli castani scarruffati e la barba incolta sul volto emaciato e pallido davano proprio il senso della condizione psichica in cui si trovava l’individuo. Nel periodo di degenza, una settimana circa, non sono riuscito a conoscere il suo nome né a comprendere se fosse italiano o albanese, tanto era il suo stato confusionale. Nei momenti più tranquilli se ne rimaneva sdraiato sul letto mormorando fra se parole prive di significato; a volte piangeva sommessamente scatenando moti di pietà, ma più spesso dava in escandescenze, soprattutto di notte e sempre senza un’apparente motivazione. Capitava che, nel cuore della notte, si avvicinasse furtivamente al letto di qualche paziente ed improvvisamente iniziasse a sbraitare e scalmanarsi come per malmenare il malcapitato tuttavia non ha mai fatto del male a nessuno, almeno nel periodo in cui gli sono stato a contatto. Ognuno dei ricoverati reagiva da par suo agli isterismi del poveraccio in relazione al suo comportamento ed al momento in cui si presentava. Chi cercava di calmarlo, chi lo allontanava e qualcuno era perfino capace di fare finta di niente, forse abituato da tempo alle sue escandescenze.
Le prime sere stentavo ad addormentarmi con la paura che il matto potesse infierire su di me.

Una volta, sarà stata mezzanotte, stavo riposando su un fianco, con la testa affondata nel cuscino e la coperta tirata fino al collo, quando un fruscio mi ha permesso d’intuire le mosse di avvicinamento dell’insano: ho voltato la testa per accertarmi di quello che stava accadendo e mi sono ritrovato il lieve luccichio dei suoi occhi spiritati a pochi centimetri dai miei. Nella penombra delle luci, come ogni notte di ridotta intensità, distinsi chiaramente la sua bocca stravolta da un ghigno raccapricciante da cui facevano capolino denti storti ed ingialliti. Per un attimo ho percepito l’odore acre del suo alito maleodorante. Ho urlato per lo spavento con quanto fiato avevo in gola e lui ha fatto altrettanto svegliando tutta la camerata e forse anche quelle vicine. Con un balzo all’indietro si è scostato dal letto continuando a gridare ed agitarsi come un ossesso e fissandomi con gli occhi fuori delle orbite mentre io, seduto sul materasso, osservavo attonito l’evolversi delle circostanze. I compagni di camerata lo raggiunsero in fretta, senza tuttavia mettergli le mani addosso o cercare di bloccarlo in qualche modo, forse coscienti del fatto che era completamente innocuo. Gli infermieri, accorsi per lo strepito, dimostrarono di governare agevolmente una situazione già vissuta: lo accompagnarono cautamente nel letto aiutandolo a coricarsi, lo coprirono con gesto compassionevole e, trascorso un breve lasso di tempo, necessario ad assicurarsi che le acque si fossero calmate del tutto, se ne andarono da dove erano venuti.
Mi ripresi dallo spavento e mi misi ad ascoltare i commenti dei compagni di camerata, per lo meno quelli dei miei connazionali: la pena per il povero cristo era il sentimento che dominava nelle poche parole che precedettero quella lunga notte. Inutile dire che non chiusi occhio fino a giorno fatto e per alcune altre notti successive, nonostante il tizio abbia esaurito il suo interesse nei miei confronti con quell’unico agghiacciante episodio.

Mi dimisero dall’ospedale nel giro di una settimana, una volta sedata la crisi febbrile, e fui rispedito al campo non lontano dalle sponde dello Shkumbini, poco distante dalla periferia di Elbassan.


domenica 19 gennaio 2014

Richiesta di matrimonio

Richiesta di matrimonio

Nella primavera del ’43, decisi di prendere il toro per le corna e tentare il tutto per tutto per ottenere una licenza che mi concedesse una pausa rasserenante.

Osvaldo, mio fedele compagno d’armi, lo stesso col quale avrei condiviso la maggior parte delle disavventure successive all’otto settembre, si era sposato poco prima di essere richiamato per la missione ai piedi dei Balcani. Vista la situazione, aveva ottenuto una licenza di trenta giorni che gli concesse di riabbracciare la moglie e la famiglia tutta prima di essere rispedito oltre il Canale d’Otranto. Durante la licenza, la moglie rimase in stato interessante e fu così che, al suo ritorno in patria, Osvaldo si ritrovò ad affrontare una figlia piccolissima che, ovviamente, non lo conosceva e lo rifiutava totalmente, nonostante le accorate spiegazioni della madre.

«Non lo vollio chello lomo!!!» Piangeva la piccola al cospetto del padre reduce, stringendosi spasmodicamente al collo della mamma.

Analizzando bene la situazione, volevo anch’io architettare qualcosa che mi avrebbe permesso di usufruire a mia volta di una licenza speciale. Dopo reiterate congetture sulla situazione contingente, certo del fatto che amavo Giorgina più di ogni cosa, tentai di prendere i classici due piccioni con una fava e mi risolsi a chiedere al padre l’autorizzazione a sposare la figlia poco più che diciottenne. Il matrimonio avrebbe definitivamente coronato il sogno d’amore, mio e della mia amata, offrendomi, allo stesso tempo, l’opportunità di richiedere ed ottenere l’agognata licenza di una trentina di giorni. Carta e penna, buttai giù una lettera nella quale spiegavo la situazione e m’impegnavo a rispettare ed onorare Giorgina per il resto della vita, previa l’autorizzazione del burbero genitore a convolare con lei a giuste nozze. Chiusi la lettera in una busta gialla ed affidai il tutto alla fureria del campo confidando in un celere invio ed in un’altrettanto sollecita consegna al destinatario padre.

L’agognata risposta non tardò ad arrivare e, dopo una ventina di giorni, l’ufficiale responsabile del mio plotone mi consegnò la busta contenente la lettera di colui che già ritenevo il mio futuro suocero. Il contenuto della lettera, purtroppo, non rispettava le mie aspettative ed il genitore confermò la scontrosità del proprio carattere non acconsentendo al matrimonio. Egli adduceva scuse che a me non parevano attendibili: faceva riferimento alla giovanissima età della figlia, al poco tempo che avevamo avuto a disposizione per conoscerci e, soprattutto, al fatto che l’estrema precarietà della situazione in cui mi trovavo io, avrebbe potuto, un giorno o l’altro, causare la totale infelicità di Giorgina. Testuali parole:
“…mi rincrescerebbe, in futuro, veder girare una vedovina per casa!” – riportavano le ultime righe della missiva.

La lettura mi rese furioso e m’intristì: Buccia, così era soprannominato, mi negava l’opportunità di coronare il sogno inseguito così a lungo rammentandomi, allo stesso tempo, l’assoluta incertezza del mio futuro di combattente.
A spron battuto, col sangue che ribolliva nelle vene, mi recai al reparto radiotelegrafisti ed inviai un telegramma alla povera Giorgina che a malapena era stata informata della mia richiesta. Il testo del telegramma aveva un significato a dir poco definitivo:
“Tra noi tutto è finito! Fatti sposare da tuo padre!”
Solo in seguito ho realizzato quale possa essere stato l’effetto di quell’unica lapidaria riga sull’animo turbato della ragazza, ma la rabbia che avevo in corpo mi precluse qualsiasi opportunità di ragionare sull’accaduto.

Al ritorno tra i ranghi, col cervello ancora in ebollizione, decisi di confidarmi coi fedeli compagni, Ardeno ed Osvaldo, i quali erano al corrente della situazione e, soprattutto, conoscevano sia Giorgina che il carattere del padre.
Entrambi si mostrarono molto attaccati e premurosi ricordandomi le qualità di colei alla quale stavo rinunciando per colpa delle problematiche di un padre così poco propenso alla nostra relazione. Mentre mi rincuoravano, tessevano le lodi di Giorgina quale fedele compagna, lavoratrice, massaia e verosimilmente affidabile madre dei nostri futuri figli. Nelle loro lodi spassionate riconoscevo l’evoluzione della bambina che avevo lasciato con la promessa di un futuro da condividere insieme.
Tutta la notte rimuginai sulla situazione, sulla lettera di Buccia, sulle sincere parole dei fidi compagni e, soprattutto, sull’immagine di lei, da cui non riuscii a distogliere la mente fino al levar del sole. La notte insonne non fece che rafforzare il sentimento che provavo nei confronti della bruna ragazzina campagnola e m’infuse la forza di non mollare, malgrado l’opposizione del padre e la precarietà della mia situazione di soldato in guerra.
Scrissi immediatamente una nuova lettera, questa volta indirizzata a mia sorella Pasquina, nella quale raccontavo dell’infelice scambio di corrispondenza con Buccia, della decisione di sospendere la relazione e del telegramma in cui lo comunicavo a Giorgina. Al contempo, però, le esternavo l’affetto immutato che provavo per lei e l’intenzione di prestare poca considerazione alla sciagurata risposta del genitore, promettendomi di dare finalmente un assetto definitivo alla relazione, non appena il conflitto me ne avesse concessa l’opportunità. La risposta di mia sorella giunse puntuale ed il suo significato si può riassumere in un perentorio:
“Che aspetti a dirglielo?”
Nel giro di ventiquattr’ore un nuovo telegramma partì dall’ufficio radio-telegrafisti del campo militare alla volta dell’ufficio postale di Cecina e, quindi, di Collemezzano:
“Ti chiedo scusa! Tutto come prima. Tuo per sempre… Tonino”.

            …e, dopo più di sessanta anni eccoci ancora qua!


venerdì 4 ottobre 2013

Distrazioni


La sera, nel campo di Elbassan, le ore trascorrevano all’insegna della monotonia e, di conseguenza, il tempo non passava mai.
Lasciando stare quando, stanchi per i lavori pesanti eseguiti durante il giorno o di ritorno da una missione, non vedevamo l’ora di coricarci in branda, nelle sere un po’ più tranquille non c’era veramente niente da fare e le distrazioni erano del tutto assenti. La città era un miraggio proibito ed i militari come noi erano invisi dalla maggior parte dei cittadini. I pochi colleghi che, da più tempo di noi, occupavano il campo non contribuivano certo a soddisfare le nostre richieste di qualcosa di nuovo.
Alcune circostanze, comunque, ci avevano da tempo insospettito: molti di quei militari spesso, dopo il rancio della sera, sparivano misteriosamente dalla circolazione e non si trovavano neanche a seguito di reiterate ricerche. Con Ardeno, Osvaldo e gli altri decidemmo di drizzare le orecchie in quanto, la mattina che seguiva le misteriose sparizioni, i commilitoni in questione apparivano più sereni e distesi.
Una sera, abbandonato il mio alloggio in selleria e raggiunti i compagni nella loro tenda, come di consueto ci preparavamo per la solita noiosissima partita a tre sette, briscole e scopa quando il caporale della nostra squadra entrò trafelato dal telo aperto sollevando un polverone che scatenò le ire degli occupanti.
«Ragazzi: ho scoperto finalmente dove i nostri colleghi anziani trascorrono molte delle loro serate». Ci comunicò sorridendo.
L’appellativo “anziani” non si riferiva propriamente all’età dei commilitoni quanto, piuttosto, all’anzianità di servizio, soprattutto in relazione alla loro permanenza in Albania.
Bene! Il caporale ci raccontò di aver avuto la soffiata da un fidato compagno anziano, caporalmaggiore, col quale condivideva la tenda. Si diceva che, a poca distanza dal nostro campo, forse meno di un chilometro, poco prima dell’abitato di Elbassan, l’Esercito Italiano aveva allestito una casa di appuntamenti in un casolare isolato, proprio allo scopo di distogliere le giovani menti dei militari dalle difficoltà che erano costretti ad affrontare quotidianamente. La ciliegina sulla torta era rappresentata dal fatto che tutte le signorine prestatrici d’opera presso la casa in questione erano italiane e, di conseguenza, ancora più appetibili in quanto ancore a cui appigliarsi per un’immaginaria capatina in patria.
A dire la verità i sentori di questa che per noi era una novità assoluta, si erano avvertiti già da qualche tempo. Ogni due settimane, di sabato mattina, infatti, ci era precluso l’utilizzo dell’infermeria del campo, adducendo a fantomatiche visite di civili estranei al campo stesso tuttavia di origine italiana e quindi con il pieno diritto di usufruire delle strutture militari. Durante quelle mattinate, erano frequenti le visite in infermeria di personaggi femminili, piuttosto ben vestiti ma apparentemente insospettabili dal nuovo punto di vista prospettatoci dal nostro caporale.
Appresa la notizia, fu semplice collegare le prestazioni delle signorine residenti nel casale alle bisettimanali visite sanitarie del sabato mattina.
Volarono le bustine grigioverdi ed i mazzi di carte furono abbandonati al loro destino sul nudo tavolaccio allorché decidemmo di recarci a far visita alla casa in questione. Il caporale, tuttavia, pur fremendo anch’egli per l’impazienza, ci consigliò di attendere un paio di sere in modo tale da non creare la ressa sull’uscio del “parco dei divertimenti”.
Eravamo a dicembre del ’42 e prendemmo in considerazione la proposta del diversivo come un inatteso regalo della sorte in occasione dell’incipiente Natale.
Dopo un iniziale motto di sfrenata allegria, contagiato dall’entusiasmo dei compagni e stimolato dalla prolungata astinenza, il pensiero fuggì immediatamente a casa, dove la mia cara stava aspettando il ritorno del suo soldato. Un alone di mestizia mi avvolse per averla tradita, almeno col pensiero. Ricordo che trascorsi i due giorni che precedettero la visita dei miei compagni al parco dei divertimenti a combattere tra l’amore sincero e profondo che provavo per Giorgina e la necessità, soprattutto fisica, di soddisfare l’irrefrenabile istinto carnale e gli ormoni repressi dei ventitrè anni compiuti da poco. Se si aggiungono le ristrettezze della situazione contingente, la lontananza da casa e la totale carenza di affetti, al di là delle amicizie consolidate dalla guerra, il gioco è fatto. Anche Osvaldo, che tra l’altro era già sposato, si dimostrò coerente al sentimento ed al rispetto che provava per la giovanissima congiunta e devo dire che, a caso ripensato, non è che la notizia ci risolse troppo la situazione riguardante la carenza di diversivi.
Resistemmo più a lungo di quanto avremmo potuto immaginare, alla tentazione di unirci allo stuolo dei nostri commilitoni che usufruivano costantemente delle prestazioni delle ragazze italiane. Poi, il pranzo “luculliano” del giorno di Natale del 42, abbatté definitivamente gli ultimi freni inibitori.
Da alcuni giorni l’ambiente era piuttosto tranquillo e non erano previste missioni o ronde, eccezion fatta per le normali perlustrazioni quotidiane nei dintorni del campo ed i servizi di sentinella lungo il perimetro dell’accampamento. Il comando prese la giusta decisione di riservare ai soldati un trattamento speciale per l’occasione ed ordinò alle cucine del campo di dare fondo alle risorse alimentari per organizzare qualcosa di diverso dal giornaliero, monotono rancio. Non ci servirono né lasagne né arrosto di capretto, ma una saporita zuppa di verdura ed uno spezzatino di manzo con le patate (a dire la verità più patate che manzo) furono accolti con grande entusiasmo dalla truppa al completo. Quello che fu più apprezzato, comunque, fu un fiume di vino rosso italiano che probabilmente il plotone comando teneva in serbo per le occasioni migliori e, vista la ricorrenza, aveva deciso di elargirlo ai soldati.
Il pranzo e, soprattutto, il vino frantumarono definitivamente ogni freno inibitore ed il pomeriggio di Natale il casino fu letteralmente preso d’assalto. Osvaldo ed io cantavamo, durante il breve percorso che divideva il campo dalla meta della nostra gita.
Percuotemmo il pesante batacchio del grande portone di legno massiccio e, dopo pochi istanti, un’anziana e grassa signora con una parrucca di stoppa cotonata, truccata all’eccesso e con la sigaretta accesa che spenzolava dall’angolo delle labbra ci venne ad aprire. Un profumo di borotalco misto ad altre essenze dolciastre mi colpì le narici, per niente avvezze a certi effluvi, e contribuì a farmi rompere definitivamente gl’indugi. La signora, senza una parola e con atteggiamento deciso, con la testa ci fece cenno di entrare e richiuse faticosamente il pesante portone.
Il vasto salone si aprì ai miei occhi dopo aver percorso un breve andito vagamente arredato da drappi purpurei. Ampi divani di stoffa arabescata, anch’essi rossi, accoglievano comodamente diversi militari frementi, in attesa del loro turno. La cosa non mi piacque e generò una specie di motto di repulsione placato, però, dall’insistenza dei compagni e dalle loro battute che mettevano in dubbio le mie capacità e, soprattutto, i miei gusti riguardo all’argomento sessuale. L’anziana signora, la maitresse, ci fece accomodare su un divano e ci servì un bicchierino di sambuca pretendendo, in cambio, il pagamento anticipato della prestazione, in lire italiane.
Trascorremmo un’oretta a ridere, scherzare e fantasticare sull’imminente prova. Di quando in quando le ragazze, seminude e truccate oltremisura, facevano il loro ingresso nel salone, sculettando a destra e a manca, ed allungavano provocanti le mani agitando le dita ad invitare il consumatore di turno. Apparivano tutte bellissime tuttavia una di loro, sicuramente più grande di me, ma non di molto, mi colpì in maniera particolare. Era alta ed era la più bella: in cuor mio speravo di trascorrere proprio con lei il tempo a mia disposizione. I ricci corvini, adornati da una passata rossa sormontata da un generoso fiocco, incorniciavano il viso pallido, magro ed affilato su cui risaltavano gli sfavillanti occhi nerissimi eccessivamente truccati da un rimmel violaceo. Il piccolo naso alla francese indirizzava lo sguardo verso la bocca sottile e finemente smerlata, pur se sgraziata da un eccesso di rossetto color carminio, e spartiva gli zigomi leggermente sporgenti ed imporporati da appariscente belletto. Il lungo collo da airone guidava verso il petto prominente ed il corpo sinuoso e leggero inguainato da un bustino color amaranto rifinito da trine nere, mentre le gambe lunghe, tornite ed i piccoli piedi scalzi fluttuavano sull’ambiente dolciastro del salone d’attesa.
Forse tradito dall’emozione, avevo l’impressione che, ogni volta che faceva il suo ingresso nel salone, prima di proporsi all’ospite di turno, puntasse lo sguardo dritto nei miei occhi come a dire: “Aspettami, tra poco sarò da te”.
Giunse il mio turno. Cercavo con lo sguardo la bella signorina che, però, non si presentò. Rinunciai all’invito della prima donnina che mi propose i propri servigi, sperando di avere maggior fortuna con la successiva. Rinunciai ad altre due proposte, scatenando le rimostranze e le ire della megera allorché, finalmente, dal fondo del corridoio, comparse ondeggiando l’obiettivo del mio desiderio.
Avanzava sinuosa: puntava dritta verso di me provocando emozioni che accelerarono freneticamente il mio ritmo cardiaco. Mi prese per mano e mi condusse nella propria camera. La porta di legno scuro introduceva in una stanza dalle pareti recentemente dipinte di bianco e scarsamente arredata. Un letto a due piazze rifatto alla meglio, a testimonianza degli avvenimenti del recentissimo passato, ed un comodino erano disposti proprio di fronte alla porta d’ingresso. Un piccolo armadio sgangherato sulla destra, vicino alla finestra chiusa, un lavabo bianco striato d’azzurro a ridosso della parete opposta ed un misero attaccapanni in ferro battuto nero, accanto al lavabo, completavano l’essenziale arredamento della camera. L’illuminazione era garantita da un piccolo lampadario in venato legno d’ulivo, a tre luci, appeso al centro del soffitto.
Che cosa avvenne dopo è facilmente intuibile. In quel breve lasso di tempo, un po’ per l’ebbrezza del vino, un po’ per il resto, dimenticai tutto ciò che esisteva oltre le quattro mura di quella stanza ed approfittai inerme delle generose effusioni di quella rara bellezza verosimilmente costretta dalle circostanze al davvero poco edificante, pur benaccetto, servizio.
Credo di aver trascorso nella camera della ragazza più di mezz’ora, ma spendemmo i piacevoli minuti conclusivi, esclusivamente a parlare di me e di lei, che continuava a coprirmi il viso di morbide carezze. Alla fine, mi chiese di ritornare, per approfondire la nostra conoscenza e mi salutò con un’ultima dolce carezza.
All’uscita dalla camera, immancabili, le rimostranze della stopposa parrucca bionda, che sputava rimbrotti dall’angolo di labbra non impegnato a trattenere la sigaretta, e dei militari in attesa sul divano: a quanto pare avevo approfittato un po’ troppo della disponibilità della ragazza, ma che ne sapevo io di quanto si deve stare nella camera di un casino? Io ero rimasto finché ne avevo avuta voglia, la ragazza dimostrava di gradire la mia compagnia, perché mai avrei dovuto avere fretta di uscire?

Non le dissi il mio nome, nonostante le sue insistenti richieste, e non pretesi il suo. Non ho neanche mai saputo che fine abbia fatto dopo quell’unico pomeriggio di Natale. Schivavo perfino i dintorni dell’infermeria, nei giorni in cui le ragazze venivano al campo per gli opportuni accertamenti sanitari, evitando così che la vista della sua persona potesse scatenare in me la tentazione di riprovarci.Distrazioni

domenica 10 marzo 2013

Sul massiccio del Tomorit



Eravamo ancora in guerra ed il campo base del 13° Reggimento Cavalleggeri di “Monferrato” era allestito alla periferia di Elbassan, non distante dalle pendici del massiccio del Tomorit, sui Balcani. Tanto per dare l’idea, per raggiungere la costa a piedi, dal nostro campo base, erano necessari tre o quattro giorni. Il mio squadrone fu incaricato di rifornire di derrate alimentari i tomorit, albania, guerra mondiale, antonio volterrani, giorginacontingenti di carabinieri italiani che si trovavano in alta montagna e che erano impossibilitati a venire a prenderseli. Partimmo dal campo che era già buio pesto, in una gelida serata invernale. Ho ancora una fotografia che ci ritrae in una sosta diurna durante una di quelle marce: le coperte militari ci consentivano di ripararci in parte e per quanto possibile dal clima rigido inasprito anche dall’altitudine. Sulle cime più alte del massiccio del Tomorit, c’era neve anche di giugno.
La necessità di viaggiare di notte era dovuta al fatto che di giorno avremmo corso il rischio di essere scorti dai partigiani albanesi. Qualche cecchino, nascosto tra gli anfratti rocciosi non avrebbe esitato, di giorno, a farci oggetto di un tragico tiro a segno, se ci avesse scorti e, su per le mulattiere, con le possibilità di fuga ridotte a zero, avremmo fatto la fine del topo. Durante le soste giornaliere, allestite in campi di fortuna, laddove le mulattiere si concedevano spiazzi sufficientemente ampi, scorgevamo spesso filari di bocche da fuoco che spuntavano oltre i crinali.
In particolare, la prima volta che il mio plotone partecipò ad una missione del genere, l’apprensione, già di per se a livelli altissimi, raggiunse il limite di guardia quando scorgemmo, gli spiegamenti dei cannoni sopra le nostre teste. Nel proseguimento della marcia verso le zone più alte, tuttavia, nella notte successiva, aggirammo il crinale sul quale avevamo scorto le bocche da fuoco e, con nostro sollievo, scoprimmo che altro non si trattava se non di una mera messa in scena dei partigiani albanesi allo scopo di apparire ben più armati di quanto non lo fossero in realtà. Le minacciose sagome che tanto ci avevano spaventato si rivelarono innocui tubi di eternit e cemento che da lontano ingannavano come miraggi in pieno deserto. Dopo quella volta, ogni situazione del genere fu sempre valutata secondo un metro di giudizio ben meno preoccupante.
Una notte, la marcia proseguiva a cavallo, al passo, nel buio più assoluto e, di sottomano, ero seguito dal mulo carico di viveri che mi era stato affidato alla partenza. Se ripenso a quella sera, il sangue mi scorre a catinelle! Eravamo stanchissimi infreddoliti e, nonostante fossimo ormai avvezzi a missioni del genere, intimoriti dal buio assoluto in cui eravamo immersi. Quasi ai confini con la Grecia, lo squadrone a cavallo procedeva in fila indiana su per una delle tante mulattiere. La pallida luna ci consentiva a malapena di scorgere rari e lievi bagliori delle distanti cime innevate e la visibilità era drasticamente ridotta a pochi metri. La fila che mi precedeva si fermò ed io ne approfittai per smontare da cavallo e sedermi su un grosso masso che si trovava sul ciglio della strada, lato monte, subito imitato da coloro che mi seguivano. Il tempo di chiudere gli occhi e stiracchiare le membra rattrappite dalla scomoda posizione tenuta per tanto tempo, sulla sella della mia cavalcatura, giusto per rilassarmi un attimo, e mi sento scuotere da una vigorosa presa per le spalle. Mi ravvedo e noto che chi mi seguiva nella marcia, si sta agitando, indicando nervosamente verso la testa della fila. I cavalli che mi precedevano erano scomparsi alla vista, come inghiottiti dall’oscurità. Una voce, un grido. Nessuna risposta. Giovani ed inesperti ci sentimmo perduti, tuttavia riprendemmo la marcia di passo svelto, per quanto la scarsità di luce e gli animali a seguito ce lo permettevano, lungo la mulattiera, confidando di rientrare nei ranghi al più presto. Seguì una mezz’ora lunghissima durante la quale i pensieri più cupi si accavallavano nelle nostre menti tutt’altro che serene. La prospettiva di perdersi e, di conseguenza, il rischio di essere tacciati da disertori, era la più rosea. Le asperità del fondo stradale, oltretutto, non ci consentivano di accelerare il passo più di tanto, ritardando pericolosamente il tentativo di avvicinamento al resto del drappello. Gli zoccoli dei cavalli cozzavano contro la nuda pietra del pendio del monte, preso come riferimento per non finire nella scarpata, verso il lato opposto del viottolo. Il mulo ogni tanto dava segni di nervosismo, come turbato dall’insolita situazione, e s’impuntava testardamente rallentando ancor di più la marcia di avvicinamento. Ogni tanto affidavo un grido al buio davanti a me nella speranza, per lungo tempo vana, di ottenere una risposta. Come un’eco, i miei commilitoni spesso mi imitavano. Il cruccio di aver provocato lo smarrimento del drappello di uomini che mi seguivano nella marcia mi attanagliava lo stomaco e mi annebbiava la mente finché dietro un tornante, dopo l’ennesimo sbercio gettato nel nulla, una flebile risposta, un fischio, ci restituì la serenità di aver colmato lo svantaggio ed essersi ricongiunti al resto dello squadrone.
Nel buio pressoché assoluto, scoprii che gli ultimi della fila si erano accorti quasi subito della nostra assenza, tuttavia il passaparola aveva impiegato un sacco di tempo per raggiungere la testa della carovana e consentire all’ufficiale di fermare la marcia approfittando della situazione per una sosta ristoratrice, per come poteva essere ristoratrice una sosta in alta montagna, in pieno inverno ed in tempo di guerra.
Un paio d’ore dopo la ripresa della marcia, l’angusto viottolo si apriva in un ambito piuttosto ampio, occupato per gran parte dall’alveo di un modesto fiume, forse proprio lo Shkumbini o qualche suo affluente, poco più di un ruscello, a quell’altitudine. Lo squadrone procedeva più agevolmente quando, a un tratto, il comando della fila, sempre col solito metodo del passaparola, comunicava furtivamente al drappello di una situazione strana che si era creata, raccomandando ai soldati di cercare un nascondiglio in attesa che le acque si calmassero. Al punto della fila in cui mi trovavo io, non giunsero notizie del motivo per cui si era resa necessaria la nuova, imprevista sosta ma, a quei tempi, se ti dicono di nasconderti, è meglio che lo fai al più presto senza chiedere niente di più. La ricerca di un nascondiglio si rivelò più ardua del previsto. I radi cespugli che spuntavano sull’acciottolato del greto del fiume si riempirono in fretta allorché decisi di arridossarmi all’erta sponda più vicina alla mulattiera, indussi il fedele Alone a sdraiarsi sull’argine e mi rannicchiai per quanto mi fu possibile a ridosso della sella. Perfino i cavalli stavano in silenzio, come fossero coscienti della pericolosità della situazione. Non mi preoccupai del mulo, abbandonandolo al suo destino. Nell’insufficiente albore della pallida luna, le orecchie dritte e vigili a percepire anche il minimo rumore erano l’unica possibilità di avvertire l’eventuale pericolo imminente. La tensione era palpabile, col moschetto imbracciato ed il colpo in canna. Il cuore, in petto, sembrava impazzito. Il ritmo cardiaco era frenetico al punto di rendere impossibile il conteggio delle pulsazioni.
Man mano che l’udito si abituava ai rumori circostanti, quali lo scorrere sommesso del fiume e gl’inevitabili suoni della natura, si percepivano sempre di più quelli che si discostavano dalla normalità.
Gli schiocchi di ciottoli che si muovono l’uno sull’altro, come animati da passi di pesanti calzature, ci avevano messo in ansia al punto che io smisi addirittura di respirare, per timore di rivelare il mio nascondiglio. Purtroppo non potevo indurre il cavallo a trattenere il respiro affannoso, ma mi consolava il fatto che anche gli altri commilitoni erano nella mia identica situazione. Il rumore continuava costante, ma sembrava non avvicinarsi. Presa confidenza con l’insolito effetto acustico, ci facemmo più audaci e, silenziosamente, alcuni di noi si avvicinarono alla presunta fonte del segnale. Anch’io mi accodai: abbandonai temporaneamente il cavallo, che spontaneamente si rimise sulle quattro zampe emettendo un sommesso sbuffo dalle froge umide, e mi unii cautamente al drappello in perlustrazione. Moschetto alle mani e chino sulla schiena, gli schiocchi si facevano sempre più netti, pur oramai confusi con quelli provocati dalle nostre calzature anfibie. La grottesca situazione che si presentò ai nostri occhi fu tale da scioglierci ed indurci ad una delle rarissime risate che la situazione contingente ci ha concesso.
Rischiarate da un paio di accendini a benzina, due tartarughe di terra dall’enorme carapace si stavano concedendo alle pratiche amorose e gli schiocchi che ci avevano reso tanto apprensivi, sì da indurre lo squadrone ad una sosta imprevista, non erano altro che il risultato dei due gusci che cozzavano l’un l’altro, accompagnati dalle pietre del greto che si muovevano sotto le poderose zampe. Non avevo mai visto tartarughe così grandi e, date le poco rassicuranti premesse, fui davvero lieto di scoprirle in un frangente come quello. La grottesca situazione aveva assunto per noi il limite della presa in giro: mentre noi eravamo in ansia per quegli strani e ben poco rassicuranti rumori, queste stavano tranquillamente amoreggiando alla faccia nostra.
Non sono mai riuscito a capire fino in fondo se la reale cagione della forzata sosta sia stata la veemenza delle pesanti tartarughe o piuttosto qualcosa di più serio avvertito dalla testa del plotone. Il fatto è che, nel silenzio, noi ci eravamo veramente spaventati per gl’insoliti rumori e, accertatane la natura ci eravamo finalmente rincuorati. È possibile che, nel frattempo, anche la minaccia percepita dal comando del manipolo fosse passata, ma nessuno si è mai degnato di fornirci una spiegazione in proposito.
Nel percorso di ritorno, al termine di una delle numerose escursioni, catturammo un esemplare delle mitiche tartarughe che caricammo sul mulo per portarcela al campo base di Elbassan. La testuggine aveva un aspetto massiccio e potente ed un giorno abbastanza tranquillo, dal punto di vista delle manovre militari, la curiosità ci spinse a saggiarne la prestanza fisica. Non ricordo chi di noi ingabbiò il carapace in una rete di corda che poi legò al paraurti anteriore di una Fiat Topolino del plotone comando: da non credere. La tartaruga fu in grado di trascinare agevolmente la vettura per diversi metri, e chissà dove l’avrebbe trainata, se non l’avessimo liberata dalla costrizione delle corde intrecciate.

domenica 28 ottobre 2012

Una comoda fastidiosa branda


La baracca della selleria non era tanto male, se confrontata con gli altri alloggi. Era piuttosto grande ed arredata con numerosi puntelli, disposti su due file parallele e sovrapposte, sui quali riponevamo le selle a riposo. Il mio compito era quello di controllare le condizioni di selle, collari ed altri finimenti in cuoio ed branda, albania, cavalleggero, arrangiamenti, esercito, seconda guerra mondialeeventualmente ripararli. I collari servivano per legare i cavalli a riposo: erano più confortevoli e certamente meno pericolosi e stressanti delle briglie, dal canto loro insostituibili durante la conduzione degli animali al troppo o al galoppo. Saltuariamente, i compagni d’armi mi affidavano la riparazione di stivali anfibi o scarponcelli “intermedi” mentre capitavano più raramente le scarpe più raffinate, da divisa drop, che appartenevano esclusivamente al corredo degli ufficiali. In un angolo avevo sistemato il mio banchetto da lavoro, con tutte le lesine, i martelli a testa piatta, gli spaghi, i grossi aghi ed i vari supporti su cui appoggiare gli accessori durante la riparazione. I cassetti, suddivisi in piccoli scomparti, erano sempre pieni di semenze di ogni dimensione in relazione al rispettivo utilizzo.
Ogni mattina facevo il giro della scuderia, se scuderia si può chiamare lo spazio all’aperto dedicato ai cavalli in un accampamento militare, ed incontravo gli addetti alla raccolta delle fiande (gli escrementi solidi mischiati ad erba parzialmente digerita), abbondantemente prodotte dai numerosi cavalli: passavano dietro ai cavalli, raccattavano le fiande con le mani e le riponevano in un capace cesto che, una volta riempito, veniva svuotato in un luogo, lontano dal campo, adibito a discarica. Non era permesso avvicinarsi ai cavalli con pale, forche o qualsiasi altro strumento che rischiasse anche minimamente di mettere a repentaglio l’incolumità dell’animale. Vista la sua natura nervosa, l’equino avrebbe potuto scartare in qualsiasi momento, soprattutto se qualcuno gli gironzolava intorno, e non era concepibile che corresse neanche il minimo rischio di subire una seppur lieve ferita.
Mi ricordo che eravamo ancora a Voghera allorché uno degli addetti fu trovato in prossimità delle terga degli animali a raccogliere le fiande con l’ausilio di una tavoletta di legno. Che pericolo avrebbe potuto costituire una tavoletta di legno per i garretti dell’animale non mi è dato di sapere, fatto sta che il caporale di giornata punì il malcapitato che fu consegnato per cinque giorni. È naia ed ogni scusa è buona per creare delle difficoltà, soprattutto alle reclute, da parte dei sottufficiali immediatamente superiori. Ho visto punire più soldati dai caporali che da qualsiasi altro graduato, ufficiale o sottufficiale che fosse. L’acquisizione del grado, seppur infimo, sembrava autorizzasse il militare ad abusare dell’autorità conferitagli e tale abuso, in genere, scemava con l’aumentare d’importanza del grado stesso.
Al campo in Albania, come già in caserma a Voghera, la rimozione delle fiande faceva parte dell’ordine dei servizi saltuari. Al termine di una di quelle giornate, le mani erano verdi come i residui d’erba parzialmente digerita che avvolgevano gli escrementi e non esisteva detersivo in grado di lavarle del tutto. Ho visto soldati con le mani verdognole anche tre giorni dopo aver svolto il servizio di rimozione fiande. Una volta, a Voghera, da recluta, anch’io ho dovuto svolgere l’odiata mansione, ma fortunatamente soltanto una volta.
Nel mio giro di ricognizione in scuderia controllavo le condizioni dei collari e, se ne trovavo uno danneggiato, lo sostituivo e lo portavo in selleria per ripararlo.
Da solo, in selleria, ero in grado di mantenere in ordine selle, collari e coperte da sella per tutte le cavalcature del mio squadrone di appartenenza. Non avevo l’obbligo né di adunate e tanto meno di contrappelli.
Già a Voghera ero esentato da tutti i servizi e spesso, dalla finestra del mio laboratorio al terzo piano, al calduccio di una stufa rovente, vedevo il mio squadrone che rientrava dalle esercitazioni, alle quali partecipavo solo saltuariamente: i cavalli avevano i ghiaccioli ai baffi, dal freddo che faceva.
Essendo da solo, nella baracca della selleria, mi riproposi di adottare una soluzione alternativa al giaciglio di semplici coperte adagiate sulla nuda e cruda terra: mi sarei costruito una rapazzola, ovvero una specie di branda, che almeno mi mantenesse sollevato dal suolo. Raccolsi un po’ di legna in giro, la ripulii adeguatamente e costruii quattro forcelle che piazzai agli angoli del costruendo giaciglio. Piazzai un robusto bastone di circa un metro per ogni coppia di forcelle e, tra i due bastoni trasversali, disposi sette o otto verghe longitudinali, un po’ più sottili e di conseguenza più elastiche. Robusti correggioli di cuoio tenevano saldamente uniti tra loro i vari pezzi della branda. La struttura del mio nuovo giaciglio era completata, ne testai la robustezza sedendomi a più riprese e mi compiacqui della buona riuscita del lavoro svolto. Era sufficiente, a quel punto, coprire il piano di legna con le coperte bianche da sella, che ovviamente non mi mancavano, e la mia cuccetta era pronta. Le coperte bianche in questione erano utilizzate per coprire il dorso del cavallo, allo scopo di attenuare il fastidio generato dal cuoio e dalle cuciture di cui era costituita la sella: centosettanta cavalli stavano a significare altrettante selle: hai voglia di coperte!
Per qualche notte ritrovai il piacere di dormire quasi in un letto autentico tuttavia, ben presto, si rivelò un benessere, purtroppo, effimero. Dopo una settimanetta di notti trascorse a dormire come un papa, o per lo meno mi sentivo tale, in rapporto agli altri che dormivano sulla cruda terra, cominciai ad accusare prurito ad un braccio, poi ad una gamba, alla schiena insomma, dopo un paio di notti passate a grattarmi decisi di accertare il motivo di tutto quel fastidio. Disfeci la branda e la sorpresa fu tale che mi vidi costretto a rinunciare al beneficio del comodo giaciglio: migliaia di uova che le cimici avevano deposto nello spessore del legno, invisibili al momento della costruzione della branda, si erano schiuse e le minuscole larve ed alcuni insetti avevano infestato le coperte, il legno stesso ed i miei vestiti. Fui costretto, mio malgrado, ad abbandonare e distruggere il mio regale giaciglio, la rapazzola, per ritornare alla vecchia abitudine di dormire per terra, pur usufruendo ugualmente della comodità delle numerose soffici coperte da sella sovrapposte.